Il mestiere del laveggiaio, attività secolare che risale ai tempi immemorabili, è un’esperienza di vita vissuta, complessa da comprendere. I laveggiai vivevano isolati dal paese per tutto l’anno, in inverno eseguivano l’estrazione della pietra nelle cave sotterrane e in primavera la lavorazione al tornio alimentato ad acqua. Lavoro tramandato di generazioni in generazioni; anche le donne ne erano parte integrante poiché dedite al trasporto degli scarti in cava e del manufatto, mentre i bambini divertendosi con gli attrezzi rubavano per gioco il mestiere del padre. Si costituiva così un’impresa famigliare integra. Per portare a termine il manufatto era necessario ingegnarsi sia al mestiere di minatore, per liberare il filone di pietra sotterraneo incassato tra i serpentini, che di cavatore per estrarre dalla roccia col piccone a doppia punta “asisc” il blocco, a forma tronco conica detto “ciapùñ”, del peso di 40 Kg. fino al quintale, che veniva trasportato sul dorso. Il lavoro era svolto in stretti cunicoli, in posizioni scomode e alla luce fioca di una torcia; nel contesto va ricordata una scritta dello storico Cesare Cantù (1859), incisa in una cava del Pirlo: “Volemmo penetrar le cave (trone) or curvi or del tutto carponi procedemmo, innanzi a noi esplorammo col lanciar sassi, finché il tonfo di questi ne mostrava esservi acqua. Quassù a lume dei pini silvestri quella povera gente intaglia i massi, indi carponi trascina i pezzi sopra piccoli trugoli”. Dal “ciapùñ” tornito si ricavava una serie di pentole “levéc” partendo dalla più grande alla più piccola e dividendole una dall’altra, dapprima incidendo la parte verticale “spunda” e poi il fondo, la parte più delicata eseguita con l’utensile “sudùñ” (sudare), guidata da un manico di legno a forma di pistola “sciüscepét” (succhiare). Questa fase di tornitura, pur con torni meccanici, è ancor oggi eseguita con gli stessi utensili guidati a mano dalla sensibilità e maestria del tornitore; è quella che richiede più attenzione, sforzo e ansia finché il pezzo interno viene estratto senza danneggiare il laveggio, dopo di che rilassandosi con ironia della vita, in pratica quasi come aver partorito un neonato, proseguivano con la stessa apprensione precedente. É doveroso citare una frase del poeta Giuseppe Nolli (1907), amico di Erminio Dioli negli anni 1925/30, tratta dal suo libro “In Valmalenco”: “A mezzo nella fossa i laveggiai sono disseminati ciascuno in una catapecchia che riceve luce da una porta senza uscio, nel mezzo del baitello è scavata una fossa profonda poco meno di un metro su cui è seduto il laveggiaio a tornire. Quando noi entrammo, a torso nudo nero e villoso appariva su dalla buca come Farinata degli Uberti dalla polvere densa della pietra raschiata, si era rizzato dalla sua buca mostrandomi orgoglioso il suo lavoro, il suo sudore, quest’uomo livido dalla polvere mi fece l’effetto di un risuscitato dopo aver rotto il coperchio del sepolcro”. Questi artigiani oltre ad essere minatori, cavatori e tornitori, dovevano provvedere personalmente alla realizzazione dell’opificio completo relativamente la parte ingegneristica del tornio, i canali di condotta, la turbina, l’albero rotante con i vari sostegni e perni rotativi e tutti gli attrezzi e utensili occorrenti per il lavoro in cava e al tornio. Inoltre dovevano essere in grado di forgiare, riassettare e temperare e di conseguenza erano indispensabili due fucine, una alla cava e l’altra al tornio per evitare il trasporto degli utensili che dovevano essere riassettati di frequente. Era un mestiere fra i mestieri, ma autonomo grazie all’ingegno dei lavoratori che diedero vita a questo nobile artigianato. Dai registri di morte che iniziano dalla fine del XVII sec. risulta che gli unici lavoratori 1983, Pietro Gaggi in uno stretto passaggio nella cava. 1985, su torni tradizionali l’abbozzo “ciapùñ”. 46 artigiani ad essere qualificati furono i cavatori di pietra ollare e i laveggiai. Anche i “Magnàñ”, stagnini di Lanzada, erano parte integrante del mestiere del laveggiaio poiché completavano il manufatto tornito, munendolo di cerchiatura metallica per poterlo maneggiare e renderlo più robusto. Le donne si dedicavano al trasporto dei prodotti, per mezzo di gerle imbottite con lo strame o fieno, dai torni disseminati nella zona dell’Alpe Pirlo fino alle varie contrade di Lanzada, mentre gli uomini dopo l’operazione di cerchiatura partivano, carichi di laveggi con un carretto trainato a mano per venderli sulle piazze, dove nel frattempo stagnavano e riparavano anche casseruole o laveggi usurati. Va citato che alcuni torni esistevano anche in Valbrutta, dove era tornita la steatite, un’altra varietà di pietra che si prestava bene al prodotto essendo molto resistente al calore e si crearono fra gli artigiani rapporti di lavoro e di amicizia che continuano tutt’oggi con i loro discendenti.