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El segiunàt

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  • Il mestiere del segiunàt, diffuso a Caspoggio in Valmalenco, consisteva nella costruzione e riparazione di recipienti in legno: mastelli, botti, secchi, zangole. Si trattava di un lavoro artigianale tramandato in famiglia, fondamentale per l’economia rurale fino al secondo dopoguerra. Il segiunàt lavorava in un piccolo laboratorio o si spostava nelle campagne lombarde, soprattutto in Brianza, per offrire i suoi servizi direttamente ai contadini. Ogni recipiente era realizzato su misura per l’uso quotidiano: per il latte, il vino, la pigiatura dell’uva, la lavorazione del burro o la pulizia personale. Era un lavoro fisico che richiedeva precisione e conoscenze specifiche sugli strumenti e sui materiali. Partivano a piedi per raggiungere le cascine lombarde, restando anche 15-20 giorni. Lavoravano in piazza o nelle stalle, ospitati dai contadini in cambio di riparazioni

    Parla l'esperto
    Silvio Gaggi

    El segiunàt, fabbricatore di mastelli in legno 

    Con un colpo al cerchio e uno alla botte, Caspoggio fa suo un mestiere tipico d'altri tempi quello del segiunàt. Tramandata di padre in figlio, questa professione permetteva ai nuovi apprendisti di imparare direttamente sul campo l'arte di costruire e riparare recipienti di legno, come ad esempio le secchie (segiùn). In tutte le case si aveva necessità di recipien- ti di legno di varie dimensioni. Un grande mastello si utilizzava come vasca da bagno per la pulizia personale oppure per fare il bucato. Ci si mettevano i panni sporchi in ammollo con acqua, cenere e saùn de cà (sapone fatto in casa), per poi risciacquarli al lavatoio della contrada. Il sapone si faceva in casa con pezzi di grasso e ossa animali, bolliti per alcune ore in acqua e soda caustica. Quando tutto era amalgamato, si versava il composto in un contenitore di legno basso e largo. Una volta raffreddato, veniva tagliato a quadrotti come l'attuale sapone di Marsiglia. Era l'unico detergente utilizzato nella pulizia quotidiana e personale, veniva addirittura consigliato dai medici di allora per le sue proprietà disinfettanti da usare specie per le parti intime. Un mastello ancora più grande, detto mùta, veniva usato nelle famiglie numerose, soprattutto nelle cascine brianzole e comasche, mentre il più piccolo, bagnìn, recipiente basso a forma ovale, era usato per far il bagno ai bambini. La meltra o mutàl, recipiente della capacità di circa 30 litri, si appendeva con una doga sporgente bucata per dar da mangiare ai vitellini e al maiale; questo recipiente veniva anche utilizzato per la fermentazione del latte per ottenere il gorgonzola.

    Siccome serviva un recipiente per ogni forma di formaggio, ne necessitavano grandi quantità e venivano forniti in gran parte da segiunàt caspoggini, che si spingevano fin nel piacentino per consegnarli, ma anche e soprattutto per riparare quelli già posseduti dai residenti. Con le doghe si costruivano quasi tutti i recipienti per uso familiare o rurale, ad esempio la ségia e il sedèl, secchio e secchiello, 'I butic', botticella da 3/4 di litro, per il vino, o la trinca, che aveva la stessa funzione, ma con forma più svasata. Fino all'ultimo dopo- guerra il settanta per cento delle famiglie era contadina e necessitava di molti attrezzi per il lavoro. La mastèla era un largo recipiente a forma di conca che veniva posto nel casél del lac' (casello per il latte) e in cui veniva versato il latte, affinché dopo qualche ora si formasse la panna. La pédria, che fungeva da imbuto, el sedèl dal quac', contenitore per il caglio, el brentin o càdula, a forma ovale, più larga alla base, con lo schienale piatto muni- to di spallacci, che serviva per trasportare il latte o altri liquidi, e dove si metteva l'astèla, un'assicella in legno che, galleggiando, evitava che il latte venisse sbattuto da una parte all'altra, durante il trasporto. Per la produzione di latticini c'erano la caròta, un colino per far scolare la ricotta, la penàia a stantüf, (zangola a stantuffo), un mastello da 15/20 litri, stretto e alto, con coperchio provvisto di un foro dove far scorrere lo stantuffo (azionato con movimento dall'alto in basso e viceversa, montava la panna fino a trasformarla in burro) e la rùncula (zangola ad acqua), sempre per produrre il burro, un recipiente a forma cilindrica, fornito di tappo a chiusura ermetica, che, montato su un cavalletto collegato a una pala tipo quella di un mulino ad acqua, e posizionato su un ruscello, sfruttava la spinta della corrente, ruotando e così montando la panna per trasformarla in burro. Per la produzione e il trasporto del vino, venivano fabbricati: la tina, un grosso contenitore da 20/30 ettolitri utilizzato per la pigiatura e la fermentazione delle uve, la brenta de l'üga, contenitore per il trasporto dell'uva di forma ovale, simile a una gerla, el barìil, barile dalla capienza di 60 litri, di forma ovale, ma piatto da un lato, per poter essere posto sul dorso dei cavalli, sempre per il trasporto del vino, e la but (botte), un grosso recipiente ovale o rotondo per l'invecchiamento del vino, dalla capacità variabile da 10 a 50 ettolitri. C'erano poi la pipa, mestolo da 6/7 litri, con manico lungo, che veniva utilizzato per estrarre i liquami dal pozzo nero, e la bunza, grande recipiente ovale, che conteneva 6/7 quintali e veniva messo sul carro per trasportate i suddetti liquami. Come tutti gli artigiani, anche i segiunàt disponevano di un piccolo laboratorio. Indispensabile era il banco da falegname, che costruivano con le loro stesse mani. Gli attrezzi da lavoro erano i seguenti: sciùna di segiunàt, pialla per doghe, ràsega, sega, vultirò, sega regolabile con lama stretta, el pasèl, un tondo in metallo per battere a pressione i cerchi delle botti, la daga, raspa curva con due manici per sagomare i recipienti all'esterno, gina- dù per fare gli incastri laterali delle doghe che facevano da base ai recipienti. Al laboratorio si andava nel periodo invernale e nei ritagli di tempo, quando si tornava in paese per la fienagione. I segiunàt erano ambulanti come i muléta (arrotini), ma meno girovaghi. Infatti, una volta raggiunta la loro destinazione, vi rimanevano anche per 15-20 giorni. Le informazioni sulle varie località erano trasmesse da genitori e nonni, che nel tempo avevano saputo instaurare con i residenti un rapporto di reciproca stima e di fiducia. I segiunàt partivano dal paese quasi sempre da soli, con in spalla uno zaino contenente pochi indumenti e piccoli attrezzi, mentre una grande pialla con due piedi faceva da sup-porto agli strumenti più ingombranti: sega, pezzi di ricambio, cerchi e doghe, tutti messi in bella vista per mostrare in giro i ferri del mestiere del segiunàt. Partivano di buon'ora, andando a piedi fino a Sondrio, dove prendevano il primo treno per Colico, Lecco o Milano. Scesi dal treno, si incamminavano nelle campagne, verso i borghi rurali, e nelle piazze gridavano "'I segiunàt, 'I segiunàt l'è chi", per avvisare della loro presenza, e nel giro di poche ore tutti sapevano che erano arrivati. Le persone che avevano bisogno delle loro prestazioni, si recavano in piazza con i propri mastelli da riparare e vi rimanevano fino a lavoro concluso. Quelli più in confidenza si accordavano per ospitarli nella propria cascina, così che potessero dormire sulla paglia o sul fieno, e la sera cenavano insieme con un piatto di minestra calda, favore che veniva contraccambiato dal segiunàt con piccole riparazioni casalinghe. La domenica non mancavano di andare a Messa, alla quale assistevano in compagnia di altri paesani che facevano lo stesso mestiere o quello del muléta. In questi paesini non mancava l'osteria, la carèra. Ci si andava in compagnia, per consumare un piatto povero, ma tipico e molto apprezzato: la büséca (trippa), che veniva "digerita" cimentandosi nel gioco della morra, molto in auge a quei tempi, o col più tranquillo gioco delle carte. Il tutto innaffiato con un buon vino, bevuto da un unico boccale, di solito da mezzo litro o un litro (il quartino si beveva quando si era da soli), e, un sorso tira l'altro, si facevano battute spiritose che, gioiose o meno che fossero, avevano sempre un fondo di verità. A volte si facevano le ore piccole con canti d'osteria, che mettevano allegria e contribuivano a rinsaldare i rapporti di amicizia con i residenti. I segiunàt venivano anche incaricati di riparare grandi botti, da 30 a 50 ettolitri di capacità, poste in cantina (invòlt). Se il lavoro si presentava complicato, veniva rinviato alla tornata successiva, dopo cinque o sei mesi, ma se era urgente, l'artigiano rientrava subito a Caspoggio per recuperare gli attrezzi adatti e il legname necessario. Quando tornava, chiedeva la collaborazione di un'altra persona del mestiere, visto che la riparazione avveniva in locali sotterranei poco praticabili, bui e stretti, e non era fattibile lavorare da soli. Terminato il lavoro, spesso con poca spesa, il proprietario offriva una gustosa merenda di pane, salame, formaggio e ... "sciroppo di cantina", poi donava a ognuno dei segiunàt un fiasco di vino, e ci si salutava con una stretta di mano e un "arrivederci". Successivamente, il segiunàt ricompensava il collega che era venuto in suo aiuto affidandogli una riparazione che sarebbe toccato a lui effettuare.

    Tratto da: Agnelli Ugo, Valmalenco, dalle contrade ai maggenghi, Lito - Polaris, 2024

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    Foto: Simone Bracchi, Alberto Carati, Valentina Colombo, Joyce Vedovatti. Testi sezione mineralogica Carmen Mitta, Pietro Nana.

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