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Contrada Moizi

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    Moizi (mòiz) è un’antica e soleggiata contrada di Lanzada, raggiungibile con una carrozzabile che si stacca dalla provinciale e termina in una piazzetta, sovrastata da un affresco del 1600 della Madonna col Bambino; una seconda piazzetta è provvista di un notevole, moderno lavatoio. L'edificazione è accentrata con costruzioni adiacenti ed è presente un interessante esempio di galleria pedonale (trùna). Gli stretti vicoli che disegnano l'impianto topografico mostrano una pavimentazione di recente formazione. Le costruzioni sono ad uso prevalentemente residenziale e non denunciano l'origine zootecnica del nucleo. Questa attività si svolgeva per la maggior parte sul territorio terrazzato posto a monte dell’abitato, dove è rilevabile un'edificazione rurale sparsa, ad uso stalla e fienile, che conserva i caratteri dell’architettura tradizionale di montagna. È presente una chiesetta che risulta essere uno dei più significativi edifici religiosi dal punto di vista artistico e architettonico della Valmalenco.

    Parla l'esperto
    Ugo Agnelli

    “Lungo la mulattiera che da Moizi sale al maggengo Ponte, si può notare un digradare di minuscoli terrazzamenti, in comune con le antiche contrade di chiesa, dove si coltivavano l’orzo e la segale e perfino la canapa e il lino su terreni mille volte divisi nella polverizzazione della proprietà contadina”. 

    Mario Gianasso

     

    La lavorazione della canapa in Valmalenco 

    Fino alla metà del Novecento, molte famiglie della Valmalenco coltivavano un campicello a canapa, una pianta erbacea che poteva arrivare ad un’altezza di due metri e più. Di essa erano sfruttate le fibre tessili che si ricavavano dopo specifici trattamenti e battiture varie. A fine agosto si mieteva, si avvolgeva in fascine, e si portava a macerare per far marcire le parti legnose, in modo che si staccassero dalle parti fibrose; a questo scopo venivano portate nei prati paludosi dove si lasciavano per quindici giorni.  Venivano poi trasportate nei fienili, o in posti ben arieggiati, disfacendo le fascine perché asciugassero. Quando erano diventate secche, fibrose e stoppose, venivano battute manualmente con la gramola (fràia) per staccare completamente le parti legnose e farle diventare un ammasso che si potesse filare. Questo lavoro veniva eseguito all’aperto tra febbraio, marzo ed aprile ed era bello sentire il rumore chioccio e ritmico delle fràie misto al chiacchierio delle donne che lavoravano in crocchio nei piccoli spiazzi (ciàz) davanti alle case, in mezzo alla polvere che si sollevava ad ogni battuta. Venivano così ricavate delle fibre, che si filavano con la rocca per filare (rǘca). Con i tessuti di canapa pesanti e ruvidi venivano più che altro confezionate coperte casalinghe molto pesanti, resistenti all'uso prolungato (pelòch), sacchi per i pagliericci (paiàz), legacci per calzature (štròpi) e stoppini (štupìn) per lumi a petrolio (lǘm) oppure si confezionavano sacchi molto resistenti.  

     

    La lavorazione del lino 

    Una delle prime fasi di lavorazione, dopo il raccolto del lino, era la macerazione, ovvero un’esposizione prolungata del gambo all’umidità. La macerazione veniva fatta a terra: gli steli venivano distribuiti uniformemente su un prato, possibilmente paludoso, dove, per 2-3 settimane, venivano sottoposti a una combinazione di aria, sole e rugiada. Un processo che provocava la fermentazione, utile a sciogliere gran parte del gambo. Dopo il processo di macerazione, gli steli venivano fatti asciugare all’aria aperta. Una volta secchi, venivano spezzati nel processo di stigliatura utilizzando una gramola (fràia), rustico strumento utilizzato per separare le fibre legnose dalle fibre tessili della canapa e del lino; è composta da due assi di legno fissate parallelamente su un cavalletto e imperniate, ad una estremità, ad un terzo asse (il battitoio) in modo che questo possa essere sollevato e abbassato, mediante una impugnatura. Gli steli di lino o di canapa venivano posti trasversalmente sulle assi fisse dello strumento, e vigorosamente compressi e battuti dall’azione del battitoio. Venivano così ricavate delle fibre, che si filavano con la rocca per filare (rǘca). La rocca era formata da un bastone, che la filatrice teneva stretto alla vita con il braccio sinistro, con in cima una specie di imbuto piramidale formato da tre stecche di legno (puiãna), entro il quale veniva messa una manciata di cotone da filare. In genere erano le donne anziane che filavano: alla sera nelle stalle calde, al sole a ridosso delle case, durante le giornate invernali, al pascolo mentre curavano le bestie in estate. Con le mani esperte facevano scendere dalla rocca un’esile filo di cotone, facendolo sfilare tra l’indice e il pollice quindi davano un colpo al fuso (füüs), come ad una trottola, per torcerlo ed un altro pezzo di filo era pronto da avvolgere. Dal lino si ottenevano delle tele giallastre, grezze e ruvide, che venivano poi stese nei prati alla pioggia e al sole, perché si sbiancassero e si ammorbidissero. Con esse venivano poi confezionate lenzuola (linzö́), camicie (camìši), mutande (müdàndi), federe (fuldreghéti) e tovaglie (tuàai), queste ultime solo per adornare gli altari delle chiese, non certo per coprire le tavole da pranzo delle misere dimore dei pur dignitosi contadini di un tempo. Questi capi, quando nuovi, erano rigidi e pungenti e solo col tempo, e dopo diverse lavature, diventavano morbidi. 

    Tratto da: Franco Dioli, Caspoggio nel secondo Millennio. Edito da Unione della Valmalenco, 2004. 

    Natalina Dioli, classe 1936

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    Curiosità

    collegamenti per un buon racconto

    L’apiario modello // A monte della contrada troviamo lo storico Apiario modello Apicoltura Nana, presente in Valmalenco dal 1923, grazie al Cavalier Ottavio Nana, appassionato naturalista ed esperto apicoltore, che introdusse in Provincia di Sondrio la nuova e moderna tecnica dell’allevamento delle api e della raccolta del miele, mediante centrifugazione e non con la spremitura. 

     

    Le contrade scomparse // Come riportato da Simon Pietro Picceni nel pregevole Inventario dei Toponimi di Lanzada, da alcuni documenti del 1400/1500 risulta che nella zona, oltre alla Contrada Moizi, vi fossero quelle di: Savinis (o de Savijs), de Conzadris e de Bufis. Ora sono scomparse e dove fossero non si sa; sta di fatto che durante recenti scavi per la costruzione di nuove case, sono emerse delle mura. Forse le prime due erano ubicate nel conoide di deiezione della val del scupèl. In località int a la ruinè e nel mut di spin. ; Archivio di Stato di Sondrio, 1443: “… in contrata de Sarinis”; 1480: “… in contrata de Savinis… de Savinis de lanzada”; 1483: “… in contrata de Conzadris”; 1484: “... in contrata de Savijs; 1484: “in contrata de Moyzijs”; 1561:” contrata de Bufis..ad pratum de Bufis in contrata de Moijzis.

    Per approfondire

    Documenti
    L’uso del lino nella medicina popolare(2).pdf
    Bibliografia

    Agnelli U., Dalle Contrade ai Maggenghi, volume 2. Lito Polaris, 2024.

    Comunità Montana Valtellina di Sondrio, Censimento dei beni culturali della C.M. di Sondrio, inedito, 1999-2000.

    Società Storica Valtellinese, Picceni S.M., Bergomi G., Masa A. [a cura di], Inventario dei toponimi Valtellinesi e Valchiavennaschi, territorio Comune di Lanzada, vol. 21. Poletti, Tirano, 1994.

    Spinelli D., L’Alpeggio in Valmalenco, Mutamenti sociali ed economici in una valle alpina dal secolo XIX ad oggi, tesi di laurea | Università degli studi di Milano, facoltà di lettere e filosofia | anno accademico 1980-81, copia presso Biblioteche della Valmalenco.

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    Foto: Simone Bracchi, Alberto Carati, Valentina Colombo, Joyce Vedovatti. Testi sezione mineralogica Carmen Mitta, Pietro Nana.

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