Nella zona dell’Alpe Pirlo affiora un importante filone di pietra ollare che parte dall’alta Val Giumellini a oltre 2600 m di quota, attraversa il culmine di Ui all’incrocio della valle di Sassersa, per poi scendere verso Torre di Santa Maria e riaffiorare sotto la Motta di Caspoggio.
A nord dell’Alpe, presso il läch di Tróni, si trova il filone di pietra ollare di miglior qualità della Valmalenco, conosciuto come pietra verde del Pirlo. Il materiale estratto in questa zona era meno scistoso e più resistente al calore, ideale per la produzione dei tradizionali lavéc.
Nei dintorni del lago sono ancora visibili quattro cave, una delle quali rimase attiva fino al 1900, famose per la qualità superiore della pietra. In alcuni tratti, il filone raggiungeva 40 metri di larghezza.
Le cave, tra le più antiche della zona, furono sfruttate per secoli, ma poi abbandonate perché l’estrazione era possibile solo durante inverni molto freddi. La profondità dei cunicoli (fino a 25 metri) favoriva infiltrazioni d’acqua che ostacolavano il lavoro, limitate solo dal gelo invernale.
Si accedeva tramite gradini di legno o scavati nella roccia e scale a chiocciola su piani inclinati. Il trasporto del materiale avveniva su slitte (tirûn) trainate da più persone, oppure a spalla all’interno delle cave. I cavatori portavano i massi (ciapún), mentre donne e bambini trasportavano all’esterno il materiale frantumato con picconi detti scimént.
L’enorme massa di materiale ancora visibile testimonia la lunga attività estrattiva. Gli ultimi cavatori della zona raccontavano che, nonostante l’estrazione solo in inverno, le infiltrazioni d’acqua erano costanti e le cave dovevano essere svuotate manualmente dalle donne con brente. Prima dell’abbandono fu costruita una pompa manuale, ma il lavoro richiesto per azionarla era tale da renderla inefficiente, decretando così la fine delle cave.