“Lungo la mulattiera che da Moizi sale al maggengo Ponte, si può notare un digradare di minuscoli terrazzamenti, in comune con le antiche contrade di chiesa, dove si coltivavano l’orzo e la segale e perfino la canapa e il lino su terreni mille volte divisi nella polverizzazione della proprietà contadina”.
Mario Gianasso
La lavorazione della canapa in Valmalenco
Fino alla metà del Novecento, molte famiglie della Valmalenco coltivavano un campicello a canapa, una pianta erbacea che poteva arrivare ad un’altezza di due metri e più. Di essa erano sfruttate le fibre tessili che si ricavavano dopo specifici trattamenti e battiture varie. A fine agosto si mieteva, si avvolgeva in fascine, e si portava a macerare per far marcire le parti legnose, in modo che si staccassero dalle parti fibrose; a questo scopo venivano portate nei prati paludosi dove si lasciavano per quindici giorni. Venivano poi trasportate nei fienili, o in posti ben arieggiati, disfacendo le fascine perché asciugassero. Quando erano diventate secche, fibrose e stoppose, venivano battute manualmente con la gramola (fràia) per staccare completamente le parti legnose e farle diventare un ammasso che si potesse filare. Questo lavoro veniva eseguito all’aperto tra febbraio, marzo ed aprile ed era bello sentire il rumore chioccio e ritmico delle fràie misto al chiacchierio delle donne che lavoravano in crocchio nei piccoli spiazzi (ciàz) davanti alle case, in mezzo alla polvere che si sollevava ad ogni battuta. Venivano così ricavate delle fibre, che si filavano con la rocca per filare (rǘca). Con i tessuti di canapa pesanti e ruvidi venivano più che altro confezionate coperte casalinghe molto pesanti, resistenti all'uso prolungato (pelòch), sacchi per i pagliericci (paiàz), legacci per calzature (štròpi) e stoppini (štupìn) per lumi a petrolio (lǘm) oppure si confezionavano sacchi molto resistenti.
La lavorazione del lino
Una delle prime fasi di lavorazione, dopo il raccolto del lino, era la macerazione, ovvero un’esposizione prolungata del gambo all’umidità. La macerazione veniva fatta a terra: gli steli venivano distribuiti uniformemente su un prato, possibilmente paludoso, dove, per 2-3 settimane, venivano sottoposti a una combinazione di aria, sole e rugiada. Un processo che provocava la fermentazione, utile a sciogliere gran parte del gambo. Dopo il processo di macerazione, gli steli venivano fatti asciugare all’aria aperta. Una volta secchi, venivano spezzati nel processo di stigliatura utilizzando una gramola (fràia), rustico strumento utilizzato per separare le fibre legnose dalle fibre tessili della canapa e del lino; è composta da due assi di legno fissate parallelamente su un cavalletto e imperniate, ad una estremità, ad un terzo asse (il battitoio) in modo che questo possa essere sollevato e abbassato, mediante una impugnatura. Gli steli di lino o di canapa venivano posti trasversalmente sulle assi fisse dello strumento, e vigorosamente compressi e battuti dall’azione del battitoio. Venivano così ricavate delle fibre, che si filavano con la rocca per filare (rǘca). La rocca era formata da un bastone, che la filatrice teneva stretto alla vita con il braccio sinistro, con in cima una specie di imbuto piramidale formato da tre stecche di legno (puiãna), entro il quale veniva messa una manciata di cotone da filare. In genere erano le donne anziane che filavano: alla sera nelle stalle calde, al sole a ridosso delle case, durante le giornate invernali, al pascolo mentre curavano le bestie in estate. Con le mani esperte facevano scendere dalla rocca un’esile filo di cotone, facendolo sfilare tra l’indice e il pollice quindi davano un colpo al fuso (füüs), come ad una trottola, per torcerlo ed un altro pezzo di filo era pronto da avvolgere. Dal lino si ottenevano delle tele giallastre, grezze e ruvide, che venivano poi stese nei prati alla pioggia e al sole, perché si sbiancassero e si ammorbidissero. Con esse venivano poi confezionate lenzuola (linzö́), camicie (camìši), mutande (müdàndi), federe (fuldreghéti) e tovaglie (tuàai), queste ultime solo per adornare gli altari delle chiese, non certo per coprire le tavole da pranzo delle misere dimore dei pur dignitosi contadini di un tempo. Questi capi, quando nuovi, erano rigidi e pungenti e solo col tempo, e dopo diverse lavature, diventavano morbidi.